mercoledì 27 gennaio 2010

Pagine Gialle dell'Educazione allo Sviluppo

Le “Pagine Gialle dell’Educazione allo Sviluppo” è parte di una programma per la realizzazione del primo Portale italiano dedicato alla Cooperazione allo Sviluppo e curato dall’Associazione Italiana delle ONG, dal COSV, dall’ICEI, dal VIS e da UNIMONDO.
“Pagine Gialle” si propone come un servizio della Rete per offrire agli utenti informazioni e indicazioni per la ricerca e il reperimento di risorse internet su argomenti legati allo sviluppo, alla solidarietà internazionale, alla cooperazione e alla educazione allo sviluppo e più in generale ai rapporti tra Nord e Sud del Mondo. “Pagine Gialle dell’Educazione allo Sviluppo” è una guida ragionata alla navigazione virtuale dentro i migliori siti web italiani e non, dedicata a ad aree tematiche centrali nel dibattito che si muove intorno all’Educazione allo Sviluppo e alla Mondialità. Le aree tematiche sono: Diritti Umani, Tutela dell’Ambiente, Economia dello Sviluppo e Globalizzazione, Pace e Prevenzione dei Conflitti. Per ciascuna di queste aree tematiche sono stati individuati e selezionati circa 50 siti per un totale di oltre 200 siti, proposti attraverso esaurienti schede di presentazione. Ogni scheda è corredata da specifiche voci che forniscono all’utente, seppur sinteticamente, tutte le informazioni relative al sito preso in esame.

FONTE: http://win.cosv.org/paginegialle/pagineint.asp

domenica 24 gennaio 2010

Design like you give a damn


The greatest humanitarian challenge we face today is that of providing shelter. Currently one in seven people lives in a slum or refugee camp, and more than three billion people—nearly half the world's population—do not have access to clean water or adequate sanitation. The physical design of our homes, neighborhoods, and communities shapes every aspect of our lives. Yet too often architects are desperately needed in the places where they can least be afforded.

Edited by Architecture for Humanity, Design Like You Give a Damn is a compendium of innovative projects from around the world that demonstrate the power of design to improve lives. The first book to bring the best of humanitarian architecture and design to the printed page, Design Like You Give a Damn offers a history of the movement toward socially conscious design and showcases more than 80 contemporary solutions to such urgent needs as basic shelter, health care, education, and access to clean water, energy, and sanitation. Featured projects include some sponsored by Architecture for Humanity as well as many others undertaken independently, often against great odds.
Design Like You Give a Damn is an indispensable resource for designers and humanitarian organizations charged with rebuilding after disaster and engaged in the search for sustainable development. It is also a call to action to anyone committed to building a better world.
FONTE: http://designlikeyougiveadamn.architectureforhumanity.org/

venerdì 22 gennaio 2010

L'estetica del design nei luoghi delle catastrofi


Cameron Sinclair è il fondatore, insieme a Kate Stohr, di Architecture for Humanity, una organizzazione che offre soluzioni architettoniche per le grandi crisi umanitarie. In meno di un decennio ha trasformato la sua passione per il design social-oriented in una gigantesca rete di professionisti e istituzioni in grado di convogliare progetti a grande e piccola scala per qualunque genere di emergenza. Dalla guerra del Kosovo in poi Sinclair ha attraversato quasi tutte le peggiori catastrofi mondiali: si è occupato dell'Aids in Africa, dell'11 settembre, del terremoto di Bam, dello tsunami, dell'uragano Katrina a New Orleans, del terremoto nel Kashmir. Le case provvisorie, gli ospedali mobili, le scuole, i depuratori per l'acqua, le latrine a secco progettati da decine di designer internazionali sono pubblicati in un libro Thames & Hudson del 2006, Design Like You Give a Damn (a cura di Architecture for Humanity, 34 euro), diventato nel giro di pochi mesi un oggetto di culto per gli appassionati del low-tech, del design auto-organizzato e dell'architettura sostenibile. Molto più giovane di quanto questa sequenza di impegni lascerebbe immaginare, Cameron Sinclair ha appena trentatre anni e gli si deve il fatto di avere immesso nel circuito dell'assistenza umanitaria alcune tra le forme più raffinate della cultura del design contemporaneo, senza mai abbandonare un atteggiamento deliberatamente anti-intellettuale.
Lo abbiamo incontrato nell'ambito del ciclo di incontri La cultura delle emergenze, a Milano.

Ci può raccontare, intanto, come è nata la struttura che avete poi chiamato «Architecture for Humanity»?
Finita l'università ero immediatamente entrato in uno studio di architettura dove avevo la possibilità di progettare oggetti di buon livello, prevalentemente spazi commerciali, e tuttavia la loro futilità mi procurava una enorme frustrazione. Volevo disegnare edifici che rispondessero alle necessità reali delle persone, e ero attratto in particolare dal design a scopi umanitari; ma mi resi ben presto conto che nessuno se ne occupava. La prima idea che ho cercato di realizzare è stata quella di costruire abitazioni transitorie per i profughi tornati in Kosovo, in attesa di che venissero ricostruite le loro case. Decisi di organizzare un concorso e arrivarono più di duecento progetti da trenta paesi diversi, tra cui la Serbia: un successo straordinario. In quel caso non riuscimmo a costruire le case e i soldi raccolti vennero spesi in altri generi di aiuti, ma da allora, era il 1999, con Kate Stohr avviai «Architecture for Humanity». Il progetto successivo riguardò la realizzazione di ospedali mobili per monitorare e arginare la diffusione dell'Aids in Africa, e curare malati che non potevano raggiungere le strutture sanitarie esistenti; fu allora che ci rendemmo conto del fatto che oltre a procurare le idee dovevamo controllare la parte finanziaria dell'operazione. Da allora siamo stati chiamati in tutto il mondo a intervenire in innumerevoli situazioni di crisi.

Vi capita ancora di assumervi l'iniziativa di agire in un determinato luogo o in una certa situazione, oppure vi limitate ormai a rispondere alle richieste che vi arrivano?

Ormai possiamo fare altro che selezionare le richieste, perché ne riceviamo un numero dieci volte superiore a quelle che siamo in grado di soddisfare. Superata la diffidenza verso una architettura percepita come un inutile surplus estetico, ci si è accorti che anche nell'emergenza il buon design può comportare differenze molto apprezzabili.

E quali criteri utilizzate per la selezione delle richieste di aiuto?

Le condizioni per costruire un'esperienza positiva sono quattro, come le gambe di un tavolo: prima di tutto è fondamentale scegliere progettisti che abbiano realmente il tempo e la voglia di seguire il processo fino in fondo. Coinvolgere architetti troppo in vista, anche se bene intenzionati, può rivelarsi un errore fatale. Naturalmente, conta moltissimo l'atteggiamento più o meno cooperativo della comunità destinata a usufruire del progetto. Contano, poi, la reperibilità dei fondi e un meccanismo di coordinamento efficiente.

Quando siete chiamati a risolvere un problema, come procedete alla messa a fuoco dell'oggetto da progettare e
delle caratteristiche che gli sono necessarie?
In generale il primo accorgimento consiste nel coinvolgere il maggior numero di persone estranee al mondo dell'architettura: medici, scienziati, professionisti, persone comuni. In questo modo si evita di appiattirsi sulle questioni di stile. I criteri variano a seconda delle situazioni, ma oltre alle valutazioni tecnico-scientifiche assumono grande rilievo gli aspetti economici, e non è detto che si debba a ogni costo risparmiare, perché può essere più interessante - per esempio - una soluzione che apra la possibilità di generare profitti per la comunità. Un singolo problema, come la scarsità d'acqua, può essere affrontato dal punto di vista del trasporto minuto, del filtraggio, della raccolta, del riciclo, della questione igienica a seconda della convenienza rispetto al luogo: per ognuno di questi problemi il design ha elaborato soluzioni ingegnose. Una di queste è l'«Hippo Water Roller», un bidone di plastica con un maniglione che permette, rotolando, di trasportare novanta litri d'acqua come se pesassero dieci chili; un'altra è il «Watercone», un piccolo dissalatore da due litri al giorno, e un altro ancora è la toilette di cartone. Inoltre, è molto importante che la giuria chiamata a scegliere sia formata almeno per il cinquanta per cento dai destinatari del progetto.

Riuscite a seguire l'evoluzione di questi progetti anche dopo le prime fasi dell'emergenza o generalmente il vostro compito si esaurisce con la loro realizzazione?

Cerchiamo in tutti i modi di creare rapporti duraturi. Non perché intendiamo esercitare un controllo o una manutenzione rigorosa su quanto abbiamo costruito, ma perché sarebbe un grave errore pensare che la prima soluzione adottata fosse anche quella definitiva. Se quella che era stata disegnata come una scuola diventa una biblioteca non c'è niente di male. Il nostro obiettivo è proprio quello di perfezionare l'adattabilità dei progetti alla complessità delle specifiche condizioni spaziali e temporali: uno dei principi inderogabili di «Architecture for Humanity» è il rifiuto delle fallimentari soluzioni standardizzate che hanno dominato i luoghi delle catastrofi, dal dopoguerra in poi.

Dalle sue parole sembra quasi che i network creati da «Architecture for Humanity»

rappresentino una opportunità di sperimentazione eccezionale più per gli architetti e per i designer che per gli stessi destinatari dei progetti...
Posto che i vantaggi per le comunità cui sono destinati i progetti sono indubbi, gli
architetti ne traggono insegnamenti che nessuna università potrebbe mai dare loro: per esempio, imparano come mettersi in relazione con le persone. Per costruire un rapporto produttivo bisogna dimostrare di non corrispondere allo stereotipo radical-chic del designer, e allo stesso tempo evitare di proporsi come paladini dei diritti umani; nonché deporre l'idea del design come prodotto esclusivo del talento e della cultura personale.

Nel libro «Design Like You Give a Damn» sono documentati progetti e ricerche talmente diversi tra loro che a volte si ha la sensazione di non comprendere il quadro di riferimento. Cosa hanno in comune, ad esempio, le «Paper Log Houses» di Shigeru Ban, i rifugi temporanei pensati per il terremoto di Kobe, o la ricerca «Shrinking Cities» di Philippe Oswalt?

Il terreno comune è il valore sociale della ricerca. Mobilitiamo idee e progetti che attingono a campi del design e dell'architettura - low tech, auto-organizzazione, sostenibile, risparmio delle risorse - contigui ma molto eterogenei, spesso in contrasto tra loro. Non abbiamo alcun interesse a privilegiare un orientamento rispetto a un altro, cerchiamo di mantenere la massima apertura.

La specializzazione in disastri umanitari, che da un lato garantisce il valore etico dei vostri progetti, non costituisce d'altro canto anche un limite? Non è deprimente arrivare sempre dopo? Essere destinati solo a riparare?

Sì, ma si tratta di una scelta quasi obbligata. Nessuno vuole investire nella prevenzione. Sono le grandi ondate emotive che seguono le catastrofi a mobilitare le energie, il denaro, il potere necessario a fare partire le idee, e spesso neanche quelle sono sufficienti. Prendiamo il caso di New Orleans: il rischio di inondazione era noto, e nonostante questo non si è voluto prevenirla. Il tasso di povertà degli abitanti era inammissibile per una città degli Stati Uniti, nessuno si era reso conto di quanta gente potesse essere esposta alla rovina totale dall'uragano
Katrina. Il risultato è noto: nessuno ha capito bene come reagire ed è stato uno sfacelo, uno spreco di risorse e vite umane.

Ma in quel caso siete riusciti a fare qualcosa? Sembra abbia prevalso una linea di intervento molto lontana dalvostro spirito.

Da quell'esperienza, in particolare, ho imparato che i politici hanno soprattutto bisogno che vengano fornite loro della soluzioni, ed è quel che noi in quanto architetti facciamo. D'altra parte, mentre noi coltiviamo in via del tutto marginale le nostre ipotesi, la ricostruzione di New Orleans sta prendendo la forma di un sobborgo per ricchi. Ma senza alcun piano, il che è ancora peggio. Non si può parlare di complotto proprio perché è assente ogni strategia.

In che misura secondo lei questo fenomeno è frutto di incompetenza, piuttosto che di un uso strumentale della paura?

I due elementi sono indissociabili. Molti governi sono realmente impreparati e, paradossalmente, il mix di autoritarismo e irresponsabilità che muove le loro politiche contribuisce fortemente ad aumentare le possibilità di destabilizzazione del potere costituito. Se oggi una persona su sei vive negli slum, entro il 2020 la proporzione salirà fino a uno a tre: un terzo dell'umanità ammassato in luoghi che sono di per sé catastrofi permanenti. Ogni volta che un incendio, un terremoto o qualche altra calamità del tutto prevedibile fa strage in una favela, la polveriera rischia di esplodere trascinando con sé l'intero sistema. La cosa strana è che in questo settore, almeno apparentemente, le esperienze positive non lasciano traccia, dunque si deve sempre ricominciare da zero. Pochissimi conoscono l'eccezionale dinamismo di Fred Cuny, che ha lavorato senza sosta su questi temi
dal 1970, in Biafra, fino alla sua morte in Cecenia nel 1995, accumulando competenze di importanza strategica. Eppure Fred ha scritto più di un libro per documentarle. Vorrei in tempi brevissimi creare una rete open source, che metta a disposizione questi materiali, affinché diventino un punto di riferimento imprescindibile.

Negli ambienti più radicali, sia del design che della politica, viene messo continuamente in questione il dogma secondo il quale il design dovrebbe rispondere a delle necessità; e, viceversa, chi è riguardato da necessità primarie dovrebbe potersi giovarsi dell'apporto del design. Qual è la sua posizione?

Penso che i più critici sono spesso quelli che lavorano meno. Comunque, la nostra organizzazione non è un think-tank, non teniamo lectures sui nostri progetti, li ideiamo e basta. Se si passa troppo tempo a preoccuparsi, si rischia la paralisi.


FONTE: http://www.ilmanifesto.it/ (Lucia Tozzi, 07/04/2007)