lunedì 29 novembre 2010

10 days inside the City of the Dead




Dieci giorni dentro Città dei Morti. Dieci giorni dentro il cimitero monumentale del Cairo. Dieci giorni nel diciannovesimo slum più grande del mondo. Dieci giorni per studiare gli insediamenti informali cairoti e proporre delle strategie di sviluppo sostenibile: dal 26 ottobre al 5 novembre “Inside the City of the Dead”.

Situato 7 km ad est dal centro di una delle più grandi megalopoli, con una superficie di 7,6 mq, Città dei Morti è stata fondata nel settimo secolo d.C. ed è il più vecchio cimitero funzionante del mondo. Attualmente è abitato da circa 800.000 persone che, già dal secolo scorso, a seguito della crisi urbana degli alloggi e delle carestie, occupano abusivamente le cappelle funerarie adibite alla sepoltura dei defunti e le piccole stanze costruite originariamente per ospitare i pellegrini e i guardiani dei mausolei, riadattate in abitazioni permanenti.
Fin dalla sua nascita, il cimitero è nato come luogo di equilibrio tra morte e vita e ancor oggi la caratteristica di coabitazione tra vivi e defunti nella necropoli è un aspetto peculiare e unico al mondo. Anche grazie a questa sua caratteristica, Città dei Morti si differenzia dagli altri quartieri informali poiché le bidonville sono totalmente assenti, i nuclei abitativi non sono sovraffollati, l'ambiente è salubre, c'è acqua ed elettricità e il cimitero ha un impianto ordinato e riconoscibile che si presenta come un tutt'uno con il piano urbano e in alcuni punti s'incunea nel centro storico.
Tuttavia, il rapporto del resto della metropoli  e delle autorità locali con la necropoli è ambiguo; “vivere in una tomba” rappresenta una condizione di assurdità e tabù e il cimitero è visto come l’estremo e degradato margine della città, come un posto pericoloso e ad alto rischio criminalità, causa di comune imbarazzo, ritenuto, dunque, lo sfregio dell'immagine pubblica della capitale egiziana.
Molte aree, soprattutto nella zona più a nord, sono state irrimediabilmente deturpate da sgombri e demolizioni, con conseguenze disastrose per la comunità. Tali interventi, pianificati con il solo obiettivo di spianare la strada a nuove e redditizie speculazioni edilizie, hanno compromesso l'alto valore architettonico e artistico della zona.

A prova di ciò, recentemente il governo egiziano ha approvato un nuovo piano strategico, “Cairo 2050”, con lo scopo di fornire la città più inquinata del mondo di un polmone verde. In realtà, sembra che sotto questi buoni e sani propositi si celino invece interessi politici ed economici. Il piano infatti prevede la demolizione totale del cimitero e la costruzione di aree residenziali ad alta densità dentro e attorno a questo cuore verde; molti degli insediamenti informali dovrebbero venir smantellati e rilocalizzati in una zona più periferica, cancellando così importanti pezzi della città storica e delle sue strutture sociali. La progressiva privatizzazione dello spazio e dei servizi, “mega-progetti” studiati da “archi-star” internazionali senza nessun rispetto per tutto ciò che rappresenta l'identità del Cairo, andranno a trasformare la città in una sorta di seconda Dubai, incrementando il turismo di lusso e di massa.

In opposizione alle linee guida sottese al progetto urbanistico governativo, l'ONG Live in Slums propone, con un ampio progetto multi-disciplinare, di provare come Città dei Morti costituisca invece un grande potenziale serbatoio per lo sviluppo sostenibile della città.
Da un po' di anni l'ONG milanese, in collaborazione con il Politecnico di Milano e Feda - Facoltà di Architettura del Cairo - ha avviato un progetto di ricerca per preservare il patrimonio architettonico e antropologico del cimitero storico del Cairo e ha creato un “laboratorio di quartiere” per ascoltare le istanze della comunità locale e per aiutare gli abitanti di Città dei Morti a riflettere, insieme a studiosi, professionisti e ai partecipanti di vari workshop, su come mantenere e preservare questi paesaggi in modo sostenibile e durevole.
Questo vasto programma mira a mantenere un altro piccolo progetto di eco-turismo rispettoso della struttura fisica e sociale del luogo, che ha lo scopo di avviare delle piccole attività legate al cimitero tramite forme di micro-credito.

Il laboratorio a cui io ho partecipato (assieme ad altri 11 ragazzi) era finalizzato proprio a questo: cercare di sviluppare una forma di sussistenza agro-alimentare con conseguente vendita del surplus di alcuni prodotti attraverso un progetto di agricoltura urbana. L'idea è stata quella di lavorare con la tecnica del micro-gardening, cioè degli orti sollevati da terra; essa è nata dall'impossibilità di utilizzare e coltivare direttamente il suolo dei vari hosh (tombe) poiché ritenuto sacro, in alcune aree contaminato, a volte sabbioso e quindi poco fertile e perché alla maggior parte dei residenti non è permesso trasformare il suolo, non essendo di loro proprietà.
Con non pochi imprevisti e disguidi, durante i dieci giorni di permanenza a Città dei Morti, assieme alla coordinatrice Elisabetta Bianchessi e all'agronomo Tommaso Sposito, siamo riusciti ad interagire con 7 famiglie locali: ognuna di esse ora ha nel proprio cortile, sul tetto della propria “casa”, sotto una pergola o addirittura sospesa tra due pareti, una o più cassette di legno, un pneumatico, delle bottiglie di plastica o delle ceste in cui vedrà crescere le sue preziose piantine.
Dalla tecnica su substrato a quella idroponica, dal semenzaio al trapianto, dall'irrigazione alla fertilizzazione: questi gli argomenti delle lezioni preparatorie al nostro lavoro con gli abitanti del cimitero.
Molti dei materiali per costruire i vari contenitori sono stati recuperati al mercato locale o addirittura alla vicina discarica del quartiere Zaballem. Per precauzione alcune delle sementi sono state portate dall'Italia, mentre tutte le piantine sono state acquistate presso un vicino vivaio.
E' stato interessante e curioso, a volte difficile, osservare la diversità degli atteggiamenti e delle reazioni delle famiglie davanti alla proposta di un progetto simile. Inizialmente tanta curiosità, ma anche un po' di scetticismo o disinteresse, poi soprattutto entusiasmo, riconoscenza e gratitudine. A noi “studenti” è stato dato il compito, oltre che di spiegare e costruire assieme a loro i vari orti (a volte a gesti, a volte grazie ad un traduttore o a volte addirittura a degli schizzi o disegni), anche di far capire l'importante compito e responsabilità di cui ogni famiglia si sarebbe fatta  carico: prendendosi cura delle piante infatti, si innesca un meccanismo di miglioramento della qualità della vita, in quanto questi sono prodotti di buona qualità e danno la possibilità di variare la dieta alimentare con ovvi benefici sulla salute fisica; inoltre, la vendita del raccolto che, secondo il fabbisogno risulta eccedere, può dar vità a importanti momenti di vita sociale.

Parallelamente alla vera e propria realizzazione dei miro-gardening abbiamo inoltre svolto un importante lavoro di documentazione con l'appoggio del fotografo Filippo Romano (e della sua polaroid...). L'intero programma era quindi fondato su un doppio registro, quello del lavoro sul campo e quello della memoria dell'azione, del luogo e dei suoi abitanti.

Durante i 10 giorni del workshop “Inside the City of the Dead”, oltre al progetto pilota di agricoltura urbana, si sono svolti contemporaneamente altri tre laboratori seguiti da diversi studiosi e professionisti: progettazione urbana, antropologia culturale e fotografia.

Ogni singolo lavoro è stato svolto e pensato come un primo passo verso il riconoscimento della dignità di questa parte di popolazione, verso la sua reale autonomia; un primo passo per dar voce agli abitanti, in quanto cittadini, rendendoli protagonisti della ricostruzione dei loro spazi urbani e del loro tessuto sociale.

Maggiori info: www.liveinslums.org 

martedì 22 giugno 2010

Quartiere Sociale e il WOSonOST


E’ una vera e propria diatriba quella che è venuta a crearsi a Quarto d’Altino tra l’amministrazione del nostro piccolo Comune e la cittadinanza stessa. A fare da pomo della discordia è l’area riconosciuta dalla gente con il nome di “giardinetti”, una porzione di verde di circa 11 mila metri quadri, delimitata dai quartieri residenziali, il Palazzetto dello sport, una pista di pattinaggio e le scuole elementari. L’acceso dibattito è scaturito dalla decisione dell’amministrazione di inserire l’edificio del Palazzetto dello sport nella lista dei beni alienabili del Comune, con possibilità di realizzare un nuovo piano di lottizzazione privata al fine di ricavarne dalla vendita i fondi per costruire nuove strutture sportive in periferia. L’opposizione dei cittadini si è manifestata con una raccolta firme contro il provvedimento, ottenendo come risultato una situazione di stallo e di insoddisfazione generale fomentata, come spesso accade nelle più svariate realtà, da una totale assenza di dialogo e collaborazione. Ed è proprio in questa lacuna che noi abbiamo pensato di gettare fondamenta concrete per costruire la nostra idea di “Quartiere Sociale”.
Ma di cosa stiamo parlando? Il progetto “Quartiere Sociale” nasce dalla fusione di inclinazioni e competenze progettuali, sociali, democratiche, architettoniche e urbane arricchite dal fortunato quanto ispirato incontro con i compaesani Mirko Visentin e Giorgia Tesser, l’uno book graphic e web designer attivissimo a livello locale e fervente promotore di politiche di associazionismo giovanile, l’altra laureanda in Architettura per la città allo IUAV, anche loro come noi desiderosi di mettersi in gioco professionalmente per tentare di far convogliare le energie dei cittadini e dell’amministrazione in un unico flusso, collaborativo e costruttivo.
L’obiettivo del nostro progetto consiste nel raccogliere le esigenze del paese, assecondare le necessità, rompere i vecchi schemi dicotomici sospinti dalla convinzione che un atteggiamento positivo volto alla collaborazione sia l’unica strada per realizzare in modo innovativo grandi cambiamenti anche in un comune piccolo come il nostro.
Ma quale percorso seguire? Quale tecnica applicare per ottenere un processo più inclusivo e democratico possibile? La risposta più completa a queste domande si è rivelata la "progettazione partecipata". Abbiamo cercato di approfondire l'argomento con varie ricerche; di grande aiuto ci è stato "Marrai a Fura", un sito dedicato alla sostenibilità e alla partecipazione. Oltre a una serie di links e articoli molto interessanti, proprio qui siamo venute a conoscenza che a Berlino si sarebbe svolto un evento internazionale che ha suscitato in noi una gran curiosità: il Word Open Space on Open Space (WOSonOS), ossia l'incontro mondiale della comunità che lavora con l'Open Space Technology (OST). Prese dall'entusiasmo e dalla voglia di approfondire una metodologia che a quanto pare si dimostra tra le più efficaci nel campo della partecipazione, l’11 maggio scorso siamo quindi partite alla volta di Berlino!
L'OST è un metodo per gestire incontri, conferenze, convegni, gruppi di lavoro e laboratori di progettazione partecipata. La tecnica si basa sull'auto-organizzazione e lascia ogni partecipante libero di proporre argomenti e di discutere ciò che ritiene più importante rispetto al tema dell'incontro, in un clima piacevole e senza annoiarsi.
Durante i tre giorni di Open Space abbiamo avuto anche noi l'occasione di proporre il nostro tema di discussione (Urban Social Lab) raccogliendo così una serie di informazioni, suggerimenti e raccomandazioni molto utili ed interessanti da poter quindi applicare in quello che poi sarebbe diventato il nostro "Quartiere Sociale". Nonostante questo fosse il nostro primo incontro con l'OST, grazie al clima rilassato stile coffee break, nel confronto e nella discussione con facilitatori e rappresentanti di associazioni professionisti non abbiamo incontrato difficoltà, tutto si è svolto in modo spontaneo, diretto e sereno. Anche se durante una singola discussione non è necessaria la presenza di relatori e di programmi predefiniti, l'assenza di procedure e di una struttura predefinita è in realtà solo apparente; l'OST infatti è un sistema per gestire riunioni ed organizzazioni fortemente strutturato, ma che utilizza procedure così naturali e congeniali al modo di lavorare dell'uomo da non essere nemmeno notate, così il processo diventa molto più semplice producendo comunque risultati efficaci.
Ci ha fortemente impressionato notare come con l'utilizzo di strumenti molto semplici sia possibile ottenere risultati chiari e arrivare facilmente al nocciolo della questione. Abbiamo subito pensato che qualche sedia disposta a cerchio, un pennarello e dei post-it colorati, avrebbero potuto rappresentare un sistema di comunicazione innovativo e coinvolgente anche per la comunità di Quarto d'Altino, quindi ci auguriamo sia possibile sperimentare questi strumenti anche con "Quartiere Sociale".

Sara Rossi e Caterina Pagnin (22 maggio 2010)

altre info su: www.quartieresociale.it

lunedì 22 marzo 2010

COOPERANTE.IT


Questa risorsa è rivolta ai professionisti della lavorano nella cooperazione internazionale allo sviluppo e negli aiuti umanitari, a chi si sta formando per questa carriera e a tutti coloro che sono interessati a questo soggetto. Su Cooperante.it potrai trovare:

* Articoli - una vasta collezioni di articoli, scritti da esperti nei vari settori della cooperazione internazionale, con possibilità di commento e dialogo da parte degli utenti.
* Toolbox - una biblioteca "annotata" e con funzioni di ricerca, contenente una miniera di documenti di riferimento per l'assistenza umanitaria e l'aiuto allo sviluppo.
* Pubblicazioni - editoria elettronica, ossia manuali in formato .pdf come "Ideali e Carriera - Un lavoro nella cooperazione internazionale" e "Nell'emergenza - Teoria e pratica degli aiuti umanitari".
* Forum - il forum di discussione della comunità, diviso per argomenti, dove scambiare idee, opinioni, esperienze e dove chiedere consigli.
* Formazione - calendario e descrizione di corsi brevi di formazione in Italia e all'estero; descrizione dei corsi di laura/masters in Italia ed all'estero.
* Lavoro - un'ampia sezione di collegamento a tutti gli annunci di vacanza di posto nel mondo della cooperazione internazionale ed, in futuro, gli annunci delle ONG italiane in esclusiva.
* ONG Italiane - la "vetrina" delle ONG Italiane, con presentazioni ed un database con funzioni di ricerca.
* Dal Terreno - i blog dei cooperanti in missione, per vivere "in diretta" l'esperienza della cooperazione.
* Pagine Personali - la "vetrina" dei membri della comunità: un database specializzato con elaborate funzioni di ricerca a disposizione delle organizzazioni che cercano personale.
* Contatti - tutti i riferimenti per contattare Cooperante.it

FONTE: http://www.cooperante.it/

lunedì 22 febbraio 2010

OS-House



Open Source House (OS-House) is a non-profit organization that aims to provide better, more sustainable housing in low-income countries. 8 Design principles are utilized by OS-House to guarantee standards of sustainability, and meet the challenge of flexibility, ensuring that all designs can be locally embedded.
Open Source House is an initiative of Vincent van der Meulen and Enviu. Together they are making this project happen. With Open Source House we want to attain our objectives by:
  • Actively involve enthusiastic young people
  • Supplying a platform that shares drawings and construction information in an open source way
  • Inspire people, corporations and construction companies worldwide to contribute to the OShouse concept and develop sustainable housing

FONTE: http://www.os-house.org/english/os-house/

mercoledì 27 gennaio 2010

Pagine Gialle dell'Educazione allo Sviluppo

Le “Pagine Gialle dell’Educazione allo Sviluppo” è parte di una programma per la realizzazione del primo Portale italiano dedicato alla Cooperazione allo Sviluppo e curato dall’Associazione Italiana delle ONG, dal COSV, dall’ICEI, dal VIS e da UNIMONDO.
“Pagine Gialle” si propone come un servizio della Rete per offrire agli utenti informazioni e indicazioni per la ricerca e il reperimento di risorse internet su argomenti legati allo sviluppo, alla solidarietà internazionale, alla cooperazione e alla educazione allo sviluppo e più in generale ai rapporti tra Nord e Sud del Mondo. “Pagine Gialle dell’Educazione allo Sviluppo” è una guida ragionata alla navigazione virtuale dentro i migliori siti web italiani e non, dedicata a ad aree tematiche centrali nel dibattito che si muove intorno all’Educazione allo Sviluppo e alla Mondialità. Le aree tematiche sono: Diritti Umani, Tutela dell’Ambiente, Economia dello Sviluppo e Globalizzazione, Pace e Prevenzione dei Conflitti. Per ciascuna di queste aree tematiche sono stati individuati e selezionati circa 50 siti per un totale di oltre 200 siti, proposti attraverso esaurienti schede di presentazione. Ogni scheda è corredata da specifiche voci che forniscono all’utente, seppur sinteticamente, tutte le informazioni relative al sito preso in esame.

FONTE: http://win.cosv.org/paginegialle/pagineint.asp

domenica 24 gennaio 2010

Design like you give a damn


The greatest humanitarian challenge we face today is that of providing shelter. Currently one in seven people lives in a slum or refugee camp, and more than three billion people—nearly half the world's population—do not have access to clean water or adequate sanitation. The physical design of our homes, neighborhoods, and communities shapes every aspect of our lives. Yet too often architects are desperately needed in the places where they can least be afforded.

Edited by Architecture for Humanity, Design Like You Give a Damn is a compendium of innovative projects from around the world that demonstrate the power of design to improve lives. The first book to bring the best of humanitarian architecture and design to the printed page, Design Like You Give a Damn offers a history of the movement toward socially conscious design and showcases more than 80 contemporary solutions to such urgent needs as basic shelter, health care, education, and access to clean water, energy, and sanitation. Featured projects include some sponsored by Architecture for Humanity as well as many others undertaken independently, often against great odds.
Design Like You Give a Damn is an indispensable resource for designers and humanitarian organizations charged with rebuilding after disaster and engaged in the search for sustainable development. It is also a call to action to anyone committed to building a better world.
FONTE: http://designlikeyougiveadamn.architectureforhumanity.org/

venerdì 22 gennaio 2010

L'estetica del design nei luoghi delle catastrofi


Cameron Sinclair è il fondatore, insieme a Kate Stohr, di Architecture for Humanity, una organizzazione che offre soluzioni architettoniche per le grandi crisi umanitarie. In meno di un decennio ha trasformato la sua passione per il design social-oriented in una gigantesca rete di professionisti e istituzioni in grado di convogliare progetti a grande e piccola scala per qualunque genere di emergenza. Dalla guerra del Kosovo in poi Sinclair ha attraversato quasi tutte le peggiori catastrofi mondiali: si è occupato dell'Aids in Africa, dell'11 settembre, del terremoto di Bam, dello tsunami, dell'uragano Katrina a New Orleans, del terremoto nel Kashmir. Le case provvisorie, gli ospedali mobili, le scuole, i depuratori per l'acqua, le latrine a secco progettati da decine di designer internazionali sono pubblicati in un libro Thames & Hudson del 2006, Design Like You Give a Damn (a cura di Architecture for Humanity, 34 euro), diventato nel giro di pochi mesi un oggetto di culto per gli appassionati del low-tech, del design auto-organizzato e dell'architettura sostenibile. Molto più giovane di quanto questa sequenza di impegni lascerebbe immaginare, Cameron Sinclair ha appena trentatre anni e gli si deve il fatto di avere immesso nel circuito dell'assistenza umanitaria alcune tra le forme più raffinate della cultura del design contemporaneo, senza mai abbandonare un atteggiamento deliberatamente anti-intellettuale.
Lo abbiamo incontrato nell'ambito del ciclo di incontri La cultura delle emergenze, a Milano.

Ci può raccontare, intanto, come è nata la struttura che avete poi chiamato «Architecture for Humanity»?
Finita l'università ero immediatamente entrato in uno studio di architettura dove avevo la possibilità di progettare oggetti di buon livello, prevalentemente spazi commerciali, e tuttavia la loro futilità mi procurava una enorme frustrazione. Volevo disegnare edifici che rispondessero alle necessità reali delle persone, e ero attratto in particolare dal design a scopi umanitari; ma mi resi ben presto conto che nessuno se ne occupava. La prima idea che ho cercato di realizzare è stata quella di costruire abitazioni transitorie per i profughi tornati in Kosovo, in attesa di che venissero ricostruite le loro case. Decisi di organizzare un concorso e arrivarono più di duecento progetti da trenta paesi diversi, tra cui la Serbia: un successo straordinario. In quel caso non riuscimmo a costruire le case e i soldi raccolti vennero spesi in altri generi di aiuti, ma da allora, era il 1999, con Kate Stohr avviai «Architecture for Humanity». Il progetto successivo riguardò la realizzazione di ospedali mobili per monitorare e arginare la diffusione dell'Aids in Africa, e curare malati che non potevano raggiungere le strutture sanitarie esistenti; fu allora che ci rendemmo conto del fatto che oltre a procurare le idee dovevamo controllare la parte finanziaria dell'operazione. Da allora siamo stati chiamati in tutto il mondo a intervenire in innumerevoli situazioni di crisi.

Vi capita ancora di assumervi l'iniziativa di agire in un determinato luogo o in una certa situazione, oppure vi limitate ormai a rispondere alle richieste che vi arrivano?

Ormai possiamo fare altro che selezionare le richieste, perché ne riceviamo un numero dieci volte superiore a quelle che siamo in grado di soddisfare. Superata la diffidenza verso una architettura percepita come un inutile surplus estetico, ci si è accorti che anche nell'emergenza il buon design può comportare differenze molto apprezzabili.

E quali criteri utilizzate per la selezione delle richieste di aiuto?

Le condizioni per costruire un'esperienza positiva sono quattro, come le gambe di un tavolo: prima di tutto è fondamentale scegliere progettisti che abbiano realmente il tempo e la voglia di seguire il processo fino in fondo. Coinvolgere architetti troppo in vista, anche se bene intenzionati, può rivelarsi un errore fatale. Naturalmente, conta moltissimo l'atteggiamento più o meno cooperativo della comunità destinata a usufruire del progetto. Contano, poi, la reperibilità dei fondi e un meccanismo di coordinamento efficiente.

Quando siete chiamati a risolvere un problema, come procedete alla messa a fuoco dell'oggetto da progettare e
delle caratteristiche che gli sono necessarie?
In generale il primo accorgimento consiste nel coinvolgere il maggior numero di persone estranee al mondo dell'architettura: medici, scienziati, professionisti, persone comuni. In questo modo si evita di appiattirsi sulle questioni di stile. I criteri variano a seconda delle situazioni, ma oltre alle valutazioni tecnico-scientifiche assumono grande rilievo gli aspetti economici, e non è detto che si debba a ogni costo risparmiare, perché può essere più interessante - per esempio - una soluzione che apra la possibilità di generare profitti per la comunità. Un singolo problema, come la scarsità d'acqua, può essere affrontato dal punto di vista del trasporto minuto, del filtraggio, della raccolta, del riciclo, della questione igienica a seconda della convenienza rispetto al luogo: per ognuno di questi problemi il design ha elaborato soluzioni ingegnose. Una di queste è l'«Hippo Water Roller», un bidone di plastica con un maniglione che permette, rotolando, di trasportare novanta litri d'acqua come se pesassero dieci chili; un'altra è il «Watercone», un piccolo dissalatore da due litri al giorno, e un altro ancora è la toilette di cartone. Inoltre, è molto importante che la giuria chiamata a scegliere sia formata almeno per il cinquanta per cento dai destinatari del progetto.

Riuscite a seguire l'evoluzione di questi progetti anche dopo le prime fasi dell'emergenza o generalmente il vostro compito si esaurisce con la loro realizzazione?

Cerchiamo in tutti i modi di creare rapporti duraturi. Non perché intendiamo esercitare un controllo o una manutenzione rigorosa su quanto abbiamo costruito, ma perché sarebbe un grave errore pensare che la prima soluzione adottata fosse anche quella definitiva. Se quella che era stata disegnata come una scuola diventa una biblioteca non c'è niente di male. Il nostro obiettivo è proprio quello di perfezionare l'adattabilità dei progetti alla complessità delle specifiche condizioni spaziali e temporali: uno dei principi inderogabili di «Architecture for Humanity» è il rifiuto delle fallimentari soluzioni standardizzate che hanno dominato i luoghi delle catastrofi, dal dopoguerra in poi.

Dalle sue parole sembra quasi che i network creati da «Architecture for Humanity»

rappresentino una opportunità di sperimentazione eccezionale più per gli architetti e per i designer che per gli stessi destinatari dei progetti...
Posto che i vantaggi per le comunità cui sono destinati i progetti sono indubbi, gli
architetti ne traggono insegnamenti che nessuna università potrebbe mai dare loro: per esempio, imparano come mettersi in relazione con le persone. Per costruire un rapporto produttivo bisogna dimostrare di non corrispondere allo stereotipo radical-chic del designer, e allo stesso tempo evitare di proporsi come paladini dei diritti umani; nonché deporre l'idea del design come prodotto esclusivo del talento e della cultura personale.

Nel libro «Design Like You Give a Damn» sono documentati progetti e ricerche talmente diversi tra loro che a volte si ha la sensazione di non comprendere il quadro di riferimento. Cosa hanno in comune, ad esempio, le «Paper Log Houses» di Shigeru Ban, i rifugi temporanei pensati per il terremoto di Kobe, o la ricerca «Shrinking Cities» di Philippe Oswalt?

Il terreno comune è il valore sociale della ricerca. Mobilitiamo idee e progetti che attingono a campi del design e dell'architettura - low tech, auto-organizzazione, sostenibile, risparmio delle risorse - contigui ma molto eterogenei, spesso in contrasto tra loro. Non abbiamo alcun interesse a privilegiare un orientamento rispetto a un altro, cerchiamo di mantenere la massima apertura.

La specializzazione in disastri umanitari, che da un lato garantisce il valore etico dei vostri progetti, non costituisce d'altro canto anche un limite? Non è deprimente arrivare sempre dopo? Essere destinati solo a riparare?

Sì, ma si tratta di una scelta quasi obbligata. Nessuno vuole investire nella prevenzione. Sono le grandi ondate emotive che seguono le catastrofi a mobilitare le energie, il denaro, il potere necessario a fare partire le idee, e spesso neanche quelle sono sufficienti. Prendiamo il caso di New Orleans: il rischio di inondazione era noto, e nonostante questo non si è voluto prevenirla. Il tasso di povertà degli abitanti era inammissibile per una città degli Stati Uniti, nessuno si era reso conto di quanta gente potesse essere esposta alla rovina totale dall'uragano
Katrina. Il risultato è noto: nessuno ha capito bene come reagire ed è stato uno sfacelo, uno spreco di risorse e vite umane.

Ma in quel caso siete riusciti a fare qualcosa? Sembra abbia prevalso una linea di intervento molto lontana dalvostro spirito.

Da quell'esperienza, in particolare, ho imparato che i politici hanno soprattutto bisogno che vengano fornite loro della soluzioni, ed è quel che noi in quanto architetti facciamo. D'altra parte, mentre noi coltiviamo in via del tutto marginale le nostre ipotesi, la ricostruzione di New Orleans sta prendendo la forma di un sobborgo per ricchi. Ma senza alcun piano, il che è ancora peggio. Non si può parlare di complotto proprio perché è assente ogni strategia.

In che misura secondo lei questo fenomeno è frutto di incompetenza, piuttosto che di un uso strumentale della paura?

I due elementi sono indissociabili. Molti governi sono realmente impreparati e, paradossalmente, il mix di autoritarismo e irresponsabilità che muove le loro politiche contribuisce fortemente ad aumentare le possibilità di destabilizzazione del potere costituito. Se oggi una persona su sei vive negli slum, entro il 2020 la proporzione salirà fino a uno a tre: un terzo dell'umanità ammassato in luoghi che sono di per sé catastrofi permanenti. Ogni volta che un incendio, un terremoto o qualche altra calamità del tutto prevedibile fa strage in una favela, la polveriera rischia di esplodere trascinando con sé l'intero sistema. La cosa strana è che in questo settore, almeno apparentemente, le esperienze positive non lasciano traccia, dunque si deve sempre ricominciare da zero. Pochissimi conoscono l'eccezionale dinamismo di Fred Cuny, che ha lavorato senza sosta su questi temi
dal 1970, in Biafra, fino alla sua morte in Cecenia nel 1995, accumulando competenze di importanza strategica. Eppure Fred ha scritto più di un libro per documentarle. Vorrei in tempi brevissimi creare una rete open source, che metta a disposizione questi materiali, affinché diventino un punto di riferimento imprescindibile.

Negli ambienti più radicali, sia del design che della politica, viene messo continuamente in questione il dogma secondo il quale il design dovrebbe rispondere a delle necessità; e, viceversa, chi è riguardato da necessità primarie dovrebbe potersi giovarsi dell'apporto del design. Qual è la sua posizione?

Penso che i più critici sono spesso quelli che lavorano meno. Comunque, la nostra organizzazione non è un think-tank, non teniamo lectures sui nostri progetti, li ideiamo e basta. Se si passa troppo tempo a preoccuparsi, si rischia la paralisi.


FONTE: http://www.ilmanifesto.it/ (Lucia Tozzi, 07/04/2007)